Francesco II di Borbone, l’ultimo Re di Napoli

Ritratto di un sovrano che amò sinceramente il suo popolo

 di

Mariolina Spadaro

 

27 dicembre 1894: l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congeda dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto. Nel suo testamento, Francesco II di Borbone aveva scritto: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”.

La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”.

Matilde Serao, in un articolo apparso sul Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”.

Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato.

Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo il riconoscimento del suo alto profilo morale.

Ma chi era davvero Francesco II?

La storia ci ha abituati a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò, aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi  o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico.

Invece, non fece nulla di tutto ciò. Non si oppose alla storia, ma non abdicò mai al ruolo che la storia gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità.

25 novembre 2007: sono passati centotredici anni. Nella Chiesa di Santa Chiara a Napoli ascolto l’omelia di un giovane frate francescano (è davvero molto bravo), nel giorno in cui si celebra la festa di Cristo Re. Non ho scelto di proposito di andare ad ascoltare la Messa domenicale a Santa Chiara, mi ci sono trovata per caso, perché un’amica mi ha chiesto di accompagnarla a vedere i presepi a San Gregorio Armeno. C’è molta gente per strada, quasi non si cammina; decidiamo perciò di andare prima a Messa, in attesa che la folla diminuisca. E’ quasi mezzogiorno; proviamo ad entrare al Gesù Nuovo, ma occorre aspettare un’ora per la celebrazione. “Ripieghiamo”,  allora, su Santa Chiara: un frate, all’ambone, sta provando con i fedeli i canti per la  Messa, che sarà celebrata tra pochi minuti. Decidiamo di restare e troviamo posto nei primi banchi, sul lato destro della basilica. All’omelia il giovane frate evidenzia la contraddizione tra il Vangelo di oggi, che presenta la scena della Crocifissione, e la regalità di Cristo, che l’odierna festività intende esaltare. Cosa c’entra con la regalità e con Cristo, Re dell’universo ed immagine visibile di Dio, che ha creato tutte le cose, in cielo e sulla terra, Troni, Dominazioni, Principati e Potestà, ecc. ecc., quella scena che riproduce il momento meno esaltante della vita di Gesù, la sua morte sulla croce?

Ma la contraddizione, spiega il frate, è soltanto apparente: Cristo che muore sulla croce è il vero Re, perché sposa per sempre il suo popolo, lo abbraccia, lo “comprehendit” e in quell’abbraccio “si comprende” egli stesso, ossia trova senso e compimento la sua stessa vita. E’ per questo motivo che Cristo è Re, non già perché domina. Non c’entrano nulla le ricchezze, il potere, l’essere “i primi della classe”. Il modello cristiano di regalità non si basa sulla “competitività”, ma sulla “comprensione”: cum – prehendere”; altrimenti non avrebbe senso la Crocifissione e Cristo sarebbe un perdente.  E noi non dovremmo essere qui.

Ho un sussulto nel rendermi conto di essere seduta proprio a fianco alla cappella dei Borbone, dove Francesco II riposa per sempre. E’ solo un caso?  Avevo, appena ieri, cominciato a scrivere queste pagine sull’ultimo sovrano delle Due Sicilie, di cui mi ha sempre colpito la profonda religiosità, la sua fede di cristiano perfetto che, con grande eroismo, ha saputo affrontare le prove durissime cui la vita lo ha  sottoposto. Chi l’ha detto che i Re devono evocare immagini di grandiosità e di potenza? Francesco II è stato un re dolente: la nascita lo privò immediatamente della madre, Maria Cristina di Savoia; le sue nozze con Maria Sofia di Baviera furono turbate dalla malattia e, quindi, dall’improvvisa morte del padre, Ferdinando II; in poco più di un anno di regno perse trono ed averi personali e non vide mai crescere l’unica figlia avuta dal quel matrimonio, che morì di pochi mesi;  visse  la maggior parte della sua vita in esilio e morì a soli 57 anni. Eppure, niente di tutto ciò poté mai scalfire il suo animo di credente e di Re: un re dolente, certo; ma quanta dignità e quanto eroismo in quel dolore!

Le parole dell’omelia, una delle migliori che mi è mai capitato di ascoltare, si intrecciano con i miei pensieri; sono parole forti, che scuotono ed inducono a riflettere sulla storia, sui popoli, sui Re. “Non ci può essere mai una supina rassegnazione agli eventi, occorre capire il senso degli accadimenti, il senso della propria vita. Contemplare: questo è il verbo giusto. Mentre Gesù muore sulla croce, il popolo “contemplava”, dice il Vangelo di Lucanon  semplicemente “stava a vedere” ( si sa: le traduzioni dal greco o dal latino non rendono quasi mai il senso autentico che le parole esprimono nella lingua originaria). Contemplare, ossia cercare di capire quello che sta accadendo: il senso della vita, il senso della storia. “Alcuni si spingono molto lontano per capire il senso della propria vita, fino in Tibet ad esempio; ma è qui ed ora che ciascuno di noi ha un senso, perché  ognuno è un tassello preciso nel grande mosaico del mondo, ognuno ha il proprio posto nella storia.

Francesco II, la storia e la fede, la regalità e Cristo, l’umiltà e la povertà di San Francesco, la competitività e la comprensione: tutto sembra intrecciarsi e convergere in unità, indicando  che il  vero significato dell’essere Re è nell’abbraccio di Cristo che muore crocifisso, in  mezzo a due ladroni. Per paradossale che possa sembrare, è proprio allora che Cristo mostra la sua regalità, esaltata dal ladrone, che proprio a causa di quell’abbraccio lo riconosce, sentendosi da Lui “comprehensum”, sposato da quel sovrano che lo ama fino a sacrificare  se stesso.

E Francesco II quale modello di regalità ha abbracciato? Quello della competizione o quello della comprensione? E’ stato un sovrano ambizioso, che ha pensato ad accrescere il proprio potere oppure è stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo? 

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 La breve, ma intensa, vita di soldato e di re, di Francesco II di Borbone appare, in verità,  come un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il “Re” Francesco II si sentiva, ed era effettivamente, “sposo” del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno.

E’ lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva  pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari  (eppure anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato, “comprehensum”

Suo padre Ferdinando II aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente  e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo.

Di Francesco II la storia, in verità, non se n’è quasi mai occupata, se non in modo apparentemente distratto, e, quando lo ha fatto, ha descritto la figura di un uomo scialbo; l’iconografia lo presenta come un giovane dall’aspetto impacciato, le spalle strette, gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’anti-eroe. Ed anche nella storiografia più recente, il re–soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, vi appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”.

Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non – Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione, la “competitività” richiesta dai modelli considerati vincenti.    

Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali..

La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano ancora oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la “vulgata” ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali specialmente si dovevano “ fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. E’ quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un  “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.

Chi era, in realtà, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie?

Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda, le evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: “una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”.

Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva  ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi  basati sulla forza  e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli.

Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa  non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare.

Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di  non poter salvare se non l’onore; combatteva  a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.

Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini”  anche quando l’esito gli fu fatale.

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Lasciando Napoli,  Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora formalmente uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità  fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito  piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re -  e non di  “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze?. “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza” : queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a statuti e “proteste”, ai “martiri” dell’Unità d’Italia (Paese che, a quanto pare, continua ancora oggi a produrre “martiri”, se c’è chi pretende - in modo assai poco regale, in  verità- dallo Stato, dunque dai suoi cittadini, il risarcimento dei danni derivati dall’esilio cui furono sottoposti, dopo il 1948, gli ex Re d’Italia ed i loro discendenti maschi, ossia i continuatori, effettivi e potenziali, di  una dinastia che aveva fondato le sue fortune, oltre che la Nazione, principalmente sul sangue degli avversari, cui aveva strappato il Trono, e delle popolazioni che in quel Trono si riconoscevano,senza minimamente preoccuparsi del loro destino).

Francesco,  Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riario Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’ miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli  miei”

Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che  quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma  sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”.

Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né  forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...”

Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri  sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra.      

Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire”

Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imprescrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re -  poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”.

L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse  dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”.

Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario  presso la Chiesa della Collegiata.

Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare.

I doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi  momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare.  La società moderna, infatti, riconosce il primato della “competitività” piuttosto che quello della “comprensione” e privilegia senz’altro gli interessi materiali che, in nome dell’individualismo e dei vantaggi dei singoli, non esitano a sacrificare il bene comune.

Napoli, 26.11.2007

 

* articolo pubblicato in tre puntate sul settimanale "La Riviera", il 9, il 16 ed il 23 dicembre 2007

 


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